Di fronte all'ingiustizia, la neutralità è un'opzione? Questa domanda e la sensazione che mi ha suscitato, si sono ripetute nel corso degli anni, osservando il picco delle crisi in luoghi come il Myanmar, la Siria, l'Ucraina e ora, in un crescendo, a Gaza. Nel mio lavoro per enti governativi e non governativi internazionali ho sempre delineato con attenzione i confini tra attivismo e aiuto umanitario, l'importanza di essere neutrali come punto fondamentale per la risoluzione, ma ha funzionato davvero nei conflitti contemporanei?
Le persone a vario titolo - che si tratti di artisti, politici o giornalisti - vengono messe a tacere per il solo fatto di opporsi al massacro e allo sfollamento diffuso e forzato di civili. In questo silenzio, abbiamo assistito collettivamente a una narrazione ricorrente: decenni di disumanizzazione sistematica che hanno alimentato il risentimento, che esplode poi nella violenza, a cui si risponde con operazioni militari che causano migliaia di vittime civili in nome dell'autodifesa o della lotta al terrorismo.
Questo ci mette di fronte a un sistema umanitario internazionale ad un bivio - non solo in Palestina, ma in una miriade di crisi in cui i bisogni umanitari si intrecciano con le violazioni dei diritti umani.
A Gaza, gli attori umanitari internazionali si appellano strettamente al diritto umanitario internazionale, mentre tutti gli occhi sono puntati su Rafah in attesa dell'attacco finale di terra, evitando con estrema cautela la dura realtà di un genocidio in corso.
Quando mi sono imbattuta per la prima volta nel termine "Resistenza umanitaria", mi ha risuonato il concetto di solidarietà, di persone sul campo e di lotta contro le ingiustizie, che ricorda la resistenza contro i regimi fascisti oppressivi durante la Seconda guerra mondiale.
Tuttavia, il concetto di resistenza umanitaria non piace ad alcuni "umanitari di principio" che sostengono una neutralità inflessibile, guidata principalmente da organizzazioni internazionali riconosciute.
Come disse una volta un cantautore che ascoltavo durante la mia adolescenza, "l'ignoranza fa paura, e il silenzio è uguale alla morte". Parole che non hanno tempo, per sempre vere.
Per navigare in questo mondo in evoluzione, dobbiamo assumerci la responsabilità di stabilire un nuovo modo di aiutare e sostenere, inequivocabilmente appoggiando gli ecosistemi a guida locale. Sono loro che stanno affrontando e combattendo le ingiustizie. Questo approccio promuove l'inclusione, la diversità e la collaborazione, abbattendo le barriere strutturali e di finanziamento internazionali , per poter invece potenziare le realtà in prima linea.
Riconoscere le ingiustizie sistemiche che causano le crisi e sostenere gli umanitari locali impegnati per la giustizia non riguarda solo loro, ma soprattutto noi, la nostra etica e umanità.
A Gaza, il cuore della resistenza umanitaria batte nelle reti comunitarie e nella società civile profondamente radicate nelle realtà locali, che rispondono ai bisogni immediati e al contempo si battono per la giustizia. Gli attori umanitari internazionali devono allineare il loro sostegno, di conseguenza, amplificando i finanziamenti flessibili per le comunità che incarnano la resistenza umanitaria in azione.
La cultura umanitaria si sta evolvendo, affermando e chiamando la propria indipendenza dagli attori dominanti, non solo per la protezione dei civili, ma anche per la giustizia, i diritti e la pace a lungo termine.
Forse è arrivato il momento di agire in modo diverso nella storia, opponendosi con determinazione alle atrocità, compresa la disumanizzazione, e sostenendo in modo inequivocabile chi denuncia i responsabili.
Zeudi Liew
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