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Il diritto naturale alla cittadinanza per i bambini nati in Italia

  • Immagine del redattore: davideberselli
    davideberselli
  • 19 giu
  • Tempo di lettura: 3 min

Mentre qui a Firenze mi recavo a votare per i referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno, e in particolare per il quesito che proponeva di dimezzare il numero di anni richiesti per ottenere la cittadinanza italiana (da dieci a cinque), nella calda serata toscana e con addosso l’energia sottile che dà l’illusione di poter cambiare in meglio le cose con un semplice tratto di penna su una scheda elettorale, ho riesumato dai miei studi universitari e dal corso di Economia politica il concetto di beni pubblici puri.

A differenza dei beni privati (una casa o una penna, ad esempio) che appartengono ai singoli individui escludendo tutti gli altri dalla loro proprietà e uso, e dei beni comuni, di tutti ma “rivali” e cioè a rischio di esaurimento (come ad esempio l’acqua, oggetto in Italia di un altro storico referendum nel 2011 che ne aveva sancito l’inviolabile caratteristica di essere bene comune), i beni pubblici puri non finiscono mai e possono essere goduti da tutti.

Sono infatti non escludibili e non rivali: come ad esempio l’illuminazione delle strade, la conoscenza, l’aria.

Quello dei beni pubblici puri (e mi piace sottolineare la purezza di questa categoria, la sua connotazione positiva e limpida) non è solo un insieme di cose vitali e fondamentali per la nostra sopravvivenza e crescita, ma anche un concetto di profonda giustizia: frutto di impegno, cura e investimenti della comunità, questi beni sono a disposizione di ogni singola donna e uomo senza considerazione delle ricchezze possedute, delle esperienze o della biografia.


Proprio come dovrebbe essere, pensavo uscendo dal seggio elettorale, per la cittadinanza. Cosa toglie infatti al mio pieno diritto di cittadinanza, del quale godo solo perché il caso mi ha fatto nascere a Roma da genitori italiani e non in un qualsiasi altro angolo della Terra, se un altro può godere di quello stesso diritto? Mi esclude forse dal votare, o dal dichiararmi, con tutto il sentimento patriottico che intenda investire in questa affermazione, fieramente italiano? Anzi, non dovrei al contrario gioire, se tanto valore do all’appartenenza a una nazione, se chi non ne fa parte solo perché il documento riporta un nome diverso sul luogo di nascita voglia con tutto l’anima sentirsi italiano come me, e aggiungere alla lingua che già parla, all’erario al quale già contribuisce, persino alla squadra di calcio che già tifa, al cibo prelibato che già cucina e gusta ogni giorno, semplicemente il pezzo di carta di un documento di identità?

Eppure, quel che a me è sempre parso un argomento lineare e semplicissimo continua a essere divisivo: si pensi solo che dei 5 referendum di giugno che non hanno raggiunto il quorum del 50% di votanti fermandosi e quindi non sono considerati validi secondo la legge italiana, i 4 che riguardavano modifiche sul diritto del lavoro per un aumento delle tutele hanno ottenuto oltre l’85% di Sì, mentre per il quesito della cittadinanza la percentuale è scesa al 65%.



Il nodo che per me continua ad essere incomprensibile, però, al di là di ogni appartenenza culturale e politica, riguarda tutti quei giovani italiani, nati in questo Paese, al quale è impedito ufficialmente di dichiararsi pubblicamente tali fino ai 18 anni e purtroppo anche oltre quest’età, viste le lungaggini e gli ostacoli burocratici ed economici dell’iter di naturalizzazione.

Infatti secondo la legge italiana, che applica il principio dello ius sanguinis e non dello ius soli nel riconoscimento della cittadinanza alla nascita, i figli di cittadini stranieri che nascono negli ospedali italiani, imparano da piccoli le prime parole della lingua di Dante, frequentano l’intero ciclo di scuole dell’obbligo, praticano sport a livello amatoriale o agonistico nelle palestre o nei campi del suolo nazionale, possono richiedere (senza ottenerla automaticamente) la cittadinanza solo al compimento della maggiore età. E così può capitare - e capita, non si tratta di casi teorici - che sia loro impedito di partire per una gita scolastica verso una destinazione

che richieda un passaporto comunitario o di partecipare a un torneo sportivo; e mentre gli stessi diritti sono garantiti ai loro amici e vicini di banco, con i quali studiano o sudano per un gol, a loro rimane l’amara considerazione che quello della cittadinanza, per i bambini e gli adolescenti italiani, sia un bene escludibile e non inclusivo, rivale e non fraterno.


Il referendum non ha purtroppo avuto successo, ma i tempi sono oramai maturi in Italia per una riforma immediata della legge sulla cittadinanza che abbia la sensibilità e l’intelligenza di leggere la realtà dei fatti e adeguare la giurisprudenza, a difesa delle donne e degli uomini del futuro di questo Paese che oggi sono ancora bambini e ragazzi. Ci sono oggi nelle scuole nazionali 914mila giovani italiane e italiani che non vedono l’ora di potersi definire cittadini a tutti gli effetti e riappropriarsi di un diritto naturale che è stato loro sottratto: è nostro dovere ascoltare la loro voce.

 
 
 

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