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La mappa della giustizia di Gen Z

  • Immagine del redattore: Zeudi Liew
    Zeudi Liew
  • 15 ott
  • Tempo di lettura: 6 min
New York Times/One Piece Flag as Symbol of the Gen Z protest across countries
New York Times/One Piece Flag as Symbol of the Gen Z protest across countries

La Generazione Z è una vasta popolazione globale di circa due miliardi di persone: un quarto dell’umanità, la coorte più numerosa della storia. Nati tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del secondo decennio del Duemila, sono i primi veri nativi digitali: cresciuti connessi, iperconsapevoli, abituati a vivere in più spazi e in più tempi. Eterogenei per provenienze e condizioni, concentrati soprattutto in Asia e in Africa ma con una voce sempre più globale, stanno ridefinendo linguaggi, consumi, politiche e — forse più di tutto — il significato della parola giustizia.


Source: Nielsen IQ
Source: Nielsen IQ

Dalle aule di Oxford alle strade impolverate di Kathmandu soffia lo stesso vento, senza passaporto. È la corrente che unisce studenti e disoccupati, creator e contadini, giovani di città e di villaggio. Una generazione che non accetta più l’idea della giustizia come bene di lusso, disponibile solo quando il colpevole è quello “giusto”. Hanno capito che i diritti umani non sono davvero universali e che il diritto internazionale somiglia spesso a una mappa disegnata da chi ha il potere, non da chi ne subisce gli effetti. La scoperta non li ha solo indignati: li ha resi lucidi. Disillusi verso le istituzioni, ma determinati a disegnare la propria mappa del futuro, con al centro una sola parola: giustizia.


Benedict Evans/Redux (Protest July New York 2016)_for Rolling Stones Magazine
Benedict Evans/Redux (Protest July New York 2016)_for Rolling Stones Magazine

Nel Nord del mondo la storia inizia spesso in un’aula e finisce in un cortile occupato. A Oxford, Cambridge, King’s College, Sciences Po, Berlino, Pisa, Milano, Bologna : le tende diventano aule, gli striscioni note a margine, le camionette della polizia punti esclamativi. Sui social — il loro habitat — raccontano, organizzano, si indignano. Sono stanchi della “normalizzazione” dell’intollerabile. Il lessico allargato da Black Lives Matter e #MeToo ha aperto una grammatica in cui razzismo, sessismo, colonialismo e crisi climatica non sono capitoli separati, ma parti di un’unica ingiustizia di sistema. Così, quando sostengono la Palestina, non parlano soltanto di geopolitica: parlano di coerenza morale. Per loro la giustizia non è una casella, è una rete.


Cambridge 2024 -Mousami Bakshi/BBC News
Cambridge 2024 -Mousami Bakshi/BBC News

Questi ragazzi e ragazze ereditano i silenzi della Guerra Fredda e vedono le ipocrisie dell’Occidente: democrazie che educano ai diritti ma spesso alimentano diseguaglianze, tollerano regimi autoritari o chiudono un occhio sullo sfruttamento di risorse e persone. Sanno che il Nord globale continua a dettare regole, mercati e narrazioni, mentre il Sud paga il conto.


Nel Sud globale la miccia cambia, la sostanza no. Le proteste non nascono nei campus ma per strada: la lingua è quella della fame, della precarietà, della luce che manca e dell’acqua che non arriva. Il primo capitolo è economico: lauree senza lavoro, stipendi senza tutele, futuri troppo cari. Poi vengono le assenze che umiliano: scuole senza maestri, ospedali senza medicine, rubinetti asciutti, blackout che spengono anche la speranza. In Marocco si costruiscono stadi mentre gli ospedali cadono a pezzi; in Madagascar ci si ribella ai continui blackout e alla povertà cronica; in Nepal la protesta esplode contro corruzione, nepotismo e il tentativo di zittire i social; in Perù l’innesco è una legge sulle pensioni che chiede contributi anche a chi un lavoro non ce l’ha, ma sotto ribolle un malcontento antico: corruzione, violenza, impunità. E nelle Filippine, tra precarietà diffusa, memoria di repressioni e disinformazione, la richiesta di dignità e diritti torna a farsi strada nelle mobilitazioni studentesche e di quartiere.


In tutti questi Paesi la corruzione non è teoria: è la buca che rompe la moto, la mazzetta che chiude una porta, la dinastia che eredita lo Stato come un cognome. Quando rallentano la rete o bloccano i social, i giovani non pensano alla sicurezza: vedono la paura del potere di fronte alle loro voci. E quella paura, ovunque, è la stessa.

TTP Blog Oct 2025
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Le piazze del Nord e quelle del Sud sono legate da un filo invisibile. Entrambe sanno che l’ingiustizia non è una somma di incidenti, ma un sistema ben progettato. E hanno iniziato a dire ad alta voce ciò che le generazioni precedenti spesso sussurravano, incluso il fatto che la cooperazione internazionale e settore umanitario, nati per “aggiustare” il mondo, talvolta lo tengono fermo dov’è; che il Sud perde più in debiti, commercio iniquo e paradisi fiscali di quanto riceva in aiuti; che i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri; che l’ascesa di governi autocratici riduce diritti e alimenta sfruttamento; che riconoscere o negare i genocidi è — prima di tutto — una decisione politica. Tutto questo non è cinismo: è consapevolezza.


Questa consapevolezza non paralizza: connette. Un ragazzo di Antananarivo sente la stessa rabbia di una studentessa di Lima o di un giovane nepalese contro la corruzione. E dove l’esperienza comune non è immediata, provano a costruirla: una moralità internazionale che apprende dalle lotte — come quella palestinese — e le traduce in pratiche condivise, fatte di ascolto, testimonianza, scambio e responsabilità.


Le vecchie cornici dei “diritti umani” e del diritto internazionale hanno insegnato un linguaggio indispensabile, ma non bastano se ignorano storia, potere e generazioni future. Per questo Gen Z risponde con la giustizia come pratica viva: retributiva quando servono responsabilità e sanzioni; riparativa quando bisogna guarire comunità ferite; distributiva quando occorre riequilibrare; trasformativa quando la casa è storta e va rifondata. Il punto non è scegliere una sola via, ma saperle tenere insieme, con la memoria come bussola.

Da qui una conseguenza semplice: ogni accordo di pace, ogni governo ad interim, ogni elezione che eluda la domanda “come si garantisce giustizia?” è destinato a fallire e ad alimentare instabilità cronica.


I social sono la loro piazza globale — a volte Discord più delle piazze fisiche. Uno studente trasmette in diretta da Berlino, un’infermiera a Lima guarda tra un turno e l’altro, un’attivista a Rabat spiega come evitare le cariche, un programmatore a Dhaka pubblica un vademecum antisorveglianza.

La rete può mentire, può essere fake certo, ma sa anche tradurre. E nella traduzione nasce la cosa più preziosa: una solidarietà che non cancella i contesti, li mette in relazione.


Più imparano, meno accettano vite separate: clima, lavoro, salute, casa, genere, decolonizzazione — tutto si tiene. Le frontiere tra le cause somigliano sempre più a quelle delle vecchie mappe coloniali: linee arbitrarie tracciate da altri.

Intanto, nel Nord una parte di giovani dorme sotto la coperta ruvida dell’autoritarismo; nel Sud i movimenti fanno i conti con censura, blackout, impunità. Ma la scena si ripete: istituzioni lente, gioventù veloci; sistemi chiusi, reti aperte. Quando i partiti sembrano musei, le strade diventano gallerie temporanee del futuro.


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Ascoltateli. Non sono solo arrabbiati; sono lungimiranti. Dicono cose semplici che diventano rivoluzionarie proprio per la loro semplicità:

dai un nome al sistema in cui vivi;

chiediti se, anche senza volerlo, lo stai sostenendo;

non fermarti ai diritti scritti sulla carta — domanda chi scrive e chi stampa;

collega il sé alla struttura, l’io al noi;

resta curioso, anche quando fa male.


E quando chiedi loro: “Che cosa volete?”, non aspettano un capo per rispondere. Il coro è già pronto: "Giustizia".


Questo è il filo che li lega — non il nastrino educato da incorniciare, ma un tendine ostinato che tira le maniche, interrompe le cene, scombina le agende. La loro mappa è ancora incompiuta — dal Marocco al Nepal, dal Madagascar al Perù, dalle Filippine all’Europa — ma il programma è già chiaro: dignità al centro, potere nominato, memoria custodita, futuri condivisi.


Ora viene il tempo dei ponti: un manifesto senza frontiere per un movimento che è già qui, disperso eppure reale.

E con i ponti, la domanda che deve guidare il lavoro:

come forgiare legami dove l’esperienza non è ancora condivisa — dove forse lo è soltanto la coscienza? Come trasformare ciò che la causa palestinese ha insegnato alla Gen Z del mondo occidentale — testimonianza, non-complicità, disinvestimento — in connessioni dove l’esperienza non coincide, ma la responsabilità sì?

Che cosa possiamo imparare dalle sollevazioni della Gen Z in Asia, Africa, America Latina e Nord Africa?


Il nostro compito è più piccolo e più difficile: ascoltare, fare spazio, stare al loro fianco in un cambiamento che deve essere, per forza, intergenerazionale e solidale nell'abbattere due muri che sbarrano ancora la strada alla giustizia: potere accentrato e responsabilità elusa.

La giustizia pretende di ridisegnare entrambi.


Per ciascuno e ciascuna di noi, cambiare è duro. Ovviamente. Ma il cambiamento è anche un atto d’identità. Agiamo come crediamo di essere.

Riscrivi l’“io” — vicino, alleato, testimone, co-autore — e i passi troveranno il sentiero che già ha un nome. E quando i governi capiscono che le identità si intrecciano e si sostengono a vicenda — quando vedono l’Io inclinarsi verso il Noi — allora hanno paura. Perché la connessione diventa corridoio; i corridoi diventano reti; le reti diventano solidarietà che scala.

Ed è lì che la gente comune diventa una minaccia straordinaria allo status quo.



 
 
 

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