Che Cosa Stiamo Facendo? Riflessioni ispirate a Ursula K. Le Guin
- Irene Ronda

- 27 nov
- Tempo di lettura: 4 min
Negli ultimi tempi ho pensato spesso al romanzo di Ursula K. Le Guin, The Word for World is Forest. L’ho letto qualche settimana fa e non mi ha più lasciato. Continua a risuonare dentro di me, soprattutto questa frase::
“Ma anche l’anima meno missionaria, a meno che non finga di non avere emozioni, prima o poi è costretta a scegliere tra commettere e omettere. ‘Che cosa stanno facendo loro?’ diventa all’improvviso ‘Che cosa stiamo facendo noi?’ e poi, ancora più a fondo: ‘Che cosa devo fare io?’”
Quel passaggio — da loro, a noi, fino all’io — oggi sembra più urgente che mai.
Ursula K. Le Guin, autrice di The Word for World is Forest

Le Guin scrisse questa storia nel 1968, nell’ombra della guerra del Vietnam, mossa dal disgusto per la distruzione che vedeva compiersi in suo nome, e dalla complicità silenziosa di chi osservava da lontano continuando la propria vita come se niente fosse. E anche se ambienta la narrazione su un altro pianeta, le domande che pone sono dolorosamente terrestri. Viviamo ancora in un mondo costruito su gerarchie di potere, guerre che si moltiplicano, un collasso ecologico che avanza, una violenza di Stato che ormai sembra diventata abitudine. E potremmo continuare a lungo.
Dalla devastazione incessante in Palestina, alla crescente insicurezza in Ecuador, al ritorno aggressivo di narrative anti-migranti e politiche che disumanizzano da un confine all’altro: è evidente che abitiamo ancora dentro le contraddizioni che Le Guin denunciava più di cinquant’anni fa. I sistemi che dicono di proteggerci e rappresentarci non riescono più a sostenere nemmeno i principi più elementari dei diritti umani.
E in mezzo a tutto questo, la posizione più facile, la più comoda, è rimanere sul bordo della scena chiedendosi “Che cosa stanno facendo?”, come se tutto accadesse altrove, al di fuori del nostro raggio d’azione.Come se fossimo impotenti. Ma, come Le Guin ci ricorda, anche l’omissione è un atto. Il silenzio è già una scelta.Il silenzio prende sempre posizione.
Chi permette all’ingiustizia di prosperare?
Uno degli aspetti più potenti di questo romanzo — breve, appena 124 pagine — è l’antagonista, Davidson. La sua ideologia si fonda sulla dominazione, sulla disumanizzazione dell’altro, sull’uso illimitato della violenza per mantenere potere e controllo. È brutale, quasi insopportabile da leggere. Ma è pur sempre un solo uomo.
Attorno a lui si muovono molti altri: meno violenti, più educati, forse persino convinti di essere “moderati”, “ragionevoli”.
Eppure partecipano, traggono vantaggio, si adagiano nel sistema ingiusto senza mai metterlo davvero in discussione. O, ancora più importante, senza mai opporvisi.
Credo che questo sia uno dei doni più preziosi che il libro ci consegna: un promemoria che la neutralità non è mai neutrale.
Le Guin mostra con una chiarezza inquietante che non serve essere apertamente oppressivi per contribuire all’oppressione. Questi sistemi che feriscono così tanti non sopravvivono grazie agli estremisti soltanto: sopravvivono grazie alla passività di chi preferisce l’ordine alla giustizia, la comodità all’organizzazione collettiva, la pace negativa allo scontro necessario. È in questo spazio vuoto — tra vedere e agire — un vuoto che non è mai stato così vasto nell’epoca delle immagini infinite — che le ingiustizie mettono radici.
E allora ritorno alla domanda di Le Guin: Che cosa stiamo facendo? Che cosa devo fare io?
Non ho la risposta giusta, né posso fingere di essere un’ esperta di trasformazione sociale. Ma voglio condividere ciò che continuo a ricordare a me stessa ogni volta che il mondo mi sovrasta e mi chiedo quale sia il mio posto di fronte a tanta ingiustizia.
Il lavoro dovrebbe iniziare dalla comprensione e continuare nell’azione.
Se vogliamo vedere un cambiamento, dobbiamo prima capire le forze che plasmano i sistemi di oggi: come opera il potere, e come persone in ogni parte del mondo hanno saputo organizzarsi per trasformare le proprie realtà. C’è una disciplina nello scegliere di imparare ciò che ci circonda. Richiede pazienza, studio e spesso la volontà di uscire dal proprio comfort intellettuale. Ma questa disciplina conta: una comprensione chiara sostiene un’azione chiara.

È normale sentirsi sopraffatti dalle domande di Le Guin, dalle atrocità che vediamo, dalla valanga di informazioni che ci scorre davanti ogni giorno. A volte le ingiustizie sembrano lontane, altre volte sembrano troppo grandi per essere affrontate. E in mezzo a questo smarrimento, il desiderio di agire può affievolirsi.
Ma il cambiamento non ha mai richiesto perfezione.
Comincia da una scelta minuscola, da un gesto possibile, anche imperfetto. Dal rifiuto di rimanere immobili. Il cambiamento non è mai nato da una sola persona. Il libro ci ricorda che la trasformazione non è un’impresa individuale: le azioni diventano potenti quando si intrecciano in uno sforzo collettivo. Ma per arrivare all’azione collettiva, ciascuno di noi deve iniziare da qualche parte.
Dona al banco alimentare del tuo quartiere. Presentati alle assemblee della comunità. Fai domande. Contesta i commenti dannosi. Vai alla protesta. Sostieni le unioni di lavoratori. Manda quella mail. Apri conversazioni difficili, resta dentro quel disagio. Sostieni le organizzazioni locali. Organizza una raccolta fondi. Offri un laboratorio. Organizzati. Metti la comunità prima della convenienza.
Nessuna di queste azioni cambierà il mondo da sola, ma tutte insieme lo rendono più possibile.Nessun gesto è troppo piccolo, nessuno è sprecato.Una trasformazione che può sembrare irrilevante per te può essere immensa per qualcun altro.
La possibilità della giustizia esiste ovunque, e cresce ogni volta che una persona rifiuta di non fare nulla.
E allora lo chiedo a me stessa, e a te:Che cosa stiamo facendo?Che cosa devo fare io?
Spero che continueremo a porci queste domande anche quando le risposte diventano scomode.Soprattutto allora.
“Se resto in silenzio, ho peccato.” — Mohammad Mossadeq



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