Il giorno dopo l’emergenza: attraversare la fine del lavoro umanitario
- Zeudi Liew

- 10 ore fa
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Ritrovarsi in una stanza virtuale, per chi ha lavorato a lungo nella tutela del minore in contesti umanitari, non è mai un gesto neutro. Gli schermi si accendono, i nomi compaiono, e per un istante tornano i luoghi, le emergenze, le riunioni infinite in cui si cercava di tenere insieme l’urgenza e la complessità. Sono persone con cui ho lavorato, studiato, costruito sistemi di protezione in contesti fragili. Un tempo ci incontravamo dentro organizzazioni, mandati, finanziamenti. Ora ci incontriamo fuori da tutto questo.
Non siamo lì per parlare di programmi o strategie. Siamo lì per raccontare cosa succede quando il lavoro finisce, ma il senso del lavoro no.
Le storie che emergono non sono storie individuali. Parlano di una trasformazione più ampia del settore umanitario: ristrutturazioni, tagli, accorpamenti, chiusure.
Un linguaggio tecnico che nasconde una verità semplice: intere competenze vengono espulse, insieme alle persone che le incarnano. Quando questo accade, non si perde solo un impiego. Si perde una posizione etica. Un modo di stare nel mondo costruito attorno alla responsabilità verso altri.
Per chi ha lavorato nella tutela del minore, questa perdita è particolarmente violenta. La protezione non è mai stata solo una funzione tecnica. È stata un patto morale. Abbiamo imparato a riconoscere il danno nei suoi travestimenti più sofisticati, a leggere il rischio dove non era nominato, a costruire sistemi imperfetti per contenere l’ingiustizia. Quando quel lavoro viene interrotto, la frattura non è solo professionale: è identitaria.
Una delle traiettorie raccontate riguarda il passaggio dal sistema umanitario al lavoro sociale istituzionale. La protezione dei minori resta il cuore, ma il contesto cambia radicalmente. Nel quadro normativo nazionale, il danno viene spesso confinato allo spazio domestico. La violenza che attraversa le comunità — sfruttamento sessuale, reti di coercizione, povertà strutturale — fatica a essere riconosciuta come responsabilità collettiva.
Chi arriva dal mondo umanitario porta con sé uno sguardo più ampio, ma deve imparare a tradurlo.
Nei colloqui, nei formulari, nei codici. Spiegare cosa significa proteggere un minore in un campo profughi o in una crisi protratta richiede un esercizio continuo di semplificazione, a volte dolorosa. Ricominciare implica accettare un ridimensionamento economico e simbolico, ma anche intravedere una possibilità: quella di contaminare sistemi rigidi con pratiche nate altrove.
Non un ritorno indietro, ma un attraversamento.
Un’altra storia parla di una sospensione improvvisa. Di rimanere a casa mentre il mondo continua a produrre emergenze. Di interrogarsi sul senso di continuare a lavorare per sistemi che non riescono più a sostenere le persone che li rendono possibili. Da qui, la scelta di spostarsi verso il lavoro con i movimenti, con i partner locali, con chi chiede un cambiamento strutturale e non solo un miglioramento tecnico. È una transizione resa possibile dal privilegio — reti, riconoscimento, capitale relazionale — e proprio per questo raccontata senza retorica. La crisi umanitaria continua e come non colpisca tutti allo stesso modo.
Ci sono poi le storie di chi è rimasto intrappolato nei processi di selezione. Colloqui che non portano a nulla, feedback che non spiegano, candidature respinte perché “non allineate”. Molte persone con anni di esperienza nella protezione dell’infanzia accettano oggi ruoli meno pagati, meno riconosciuti, pur di restare vicine a quel campo. Non per ambizione, ma per fedeltà. Il paradosso è evidente: competenze considerate centrali in emergenza diventano invisibili in contesti più stabili.
E basta aprire LinkedIn per vedere la dimensione collettiva di questo smottamento. Le foto profilo incorniciate dal verde di “open to work” aumentano ogni giorno, come un coro silenzioso che nessuno vuole ascoltare davvero. Forum di operatori umanitari senza lavoro si riempiono di messaggi: domande pratiche, paure taciute, tentativi di tradurre anni di expertise in un linguaggio comprensibile fuori dal settore. Anche io sono lì, fra loro.
E dopo quasi un anno mi accorgo che la paura non è quella di non saper più fare il mio mestiere. La vera paura è guardare fuori da quel mondo che era diventato identità e scoprire che lì fuori non c’è posto per te. Che quel sapere non ha un nome riconoscibile, che la lingua che hai parlato per anni non viene capita, che tutto diventa faticoso. E questa fatica pesa di più quando sei a metà dei tuoi quarant’anni, quando non sei né giovane da ricominciare con leggerezza né abbastanza anziana da essere considerata “senior” in un settore che ti percepisce come un alieno, come qualcosa che non si sa dove collocare.
A un certo punto, il discorso torna sempre ai valori. Non come cornice motivazionale, ma come bussola concreta. I valori restano, ma cambiano le priorità. A volte conta di più la stabilità che la precarietà. La vicinanza che la mobilità. Il cambiamento, lo sappiamo bene, non è un evento straordinario: è la materia stessa della vita e del nostro lavoro. Eppure, viverlo su di sé ha un costo che raramente viene riconosciuto.
Molti parlano di lutto. Lutto per un settore che non riesce più a proteggere chi protegge. Lutto per identità costruite attorno alla competenza, alla responsabilità, alla presenza costante. Quando il lavoro scompare, resta una domanda difficile: come continuare a prendersi cura senza consumarsi? Per le donne, questa domanda è ancora più carica. La cura è sempre stata data per scontata, estendibile, sacrificabile. Quando non regge più, viene chiamata adattamento.
Eppure, in quello spazio condiviso, qualcosa si ricompone. Riemerge il valore di competenze spesso marginalizzate: costruire fiducia con le comunità, lavorare attraverso culture diverse, coordinare senza dominare, tenere insieme protezione e dignità. Competenze che il settore umanitario ha sempre richiesto, ma raramente riconosciuto pienamente. Oggi, in nuovi contesti, diventano risorse rare.
Ascoltando queste storie, mi riconosco. In chi ha scelto di rallentare per non spezzarsi. In chi ha trovato altre forme di coerenza — nella scrittura, nello studio, in lavori apparentemente distanti, ma guidati dagli stessi principi. In chi continua a portare con sé un sapere che non sta tutto in un curriculum.
Ho reso visibile la mia disponibilità al lavoro, con l'etichetta "open to work". Non come richiesta, ma come dichiarazione di intenti. Quello che offro non è solo competenza tecnica, ma un posizionamento etico, una capacità di lavorare con complessità e conflitto, e il desiderio di farlo con le persone giuste per fare la cosa giusta. Non a qualsiasi costo. Non contro me stessa.
Questo passaggio non è una parentesi. È una soglia. Attraversarla insieme, raccontandola senza vergogna, è forse una delle forme più concrete di protezione che oggi possiamo esercitare.
Z.Liew



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