Sono passati 28 anni dal genocidio di Sebrenica, 11 Luglio 1995, e credo che le migliori parole per descrivere quell’orrore siano ancora ad oggi “imbroglio”.
Perché imbroglio fu quel massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie. In questo depistaggio l’Europa, ci cadde in pieno, per inerzia, interesse o complicità, e questo ci espose tutti e anche oggi, al rischio di essere balcanizzati senza aver approntato contromisure al diffondersi del contagio. Non ci voleva un grande sforzo a capire, bastava porsi con più insistenza le domande base del mestiere: come, dove, quando e perché. E soprattutto: a chi giova. (Rumiz,Maschere per un massacro).
Avevo 16 anni, e la guerra balcanica ci veniva raccontata dai telegiornali, ma come dovrebbe essere per ogni adolescente di quell’età, la guerra non mi apparteneva, era estate, la scuola era finita e mi godevo le vacanze scolastiche, ballando i Technotronic con le converse blu, collezionando un numero infinto di braccialetti da sfoggiare ai polsi, con jeans strappati e maglie larghe il doppio di me, con ancora addosso la delusione dei mondiali persi l’anno precedente.
Non mi ricordo dove fossi tra l’11-13 luglio del 1995, come molti di voi mi ricordo l’esatto momento e posto quando mi giunse la notizia dell’attacco alle torri gemelle anni dopo, ma quando cadde Srebrenica, non me lo ricordo. Ci fu il triplo dei morti rispetto a New York in poche ore, ma nessuna diretta, nessuno se ne accorse, e mentre l’Europa era al mare, quel posto dal nome impronunciabile nascosto tra le montagne, divenne dimenticato da tutti, pure da Dio.
Solo molti anni dopo, riuscii a pronunciare quel nome correttamente, come la parola genocidio per il Rwanda avvenuto negli stessi anni, quando a presentarmeli come concetti, definizioni e soprattutto come ricordi atroci fu il mio docente di diritto internazionale di diritti umani, un ex funzionario delle nazioni unite. Ricordo aver distolto lo sguardo dalla proiezione sullo schermo di corpi martoriati, e facendolo lo vidi in un angolo della stanza buia, a braccia conserte con gli occhi fissi a quelle immagini e il viso in penombra segnato dalle lacrime. Lui come altri, non sapevano di essere stati in quel momento al servizio di un sistema, che come Giuda, aveva mandato a morire il Cristo.
“Tranquilli sarete protetti” così le ultime frasi di congedo del generale Philippe Morillon, che lasciava i bosgnacchi senza armi, dopo averli convogliati in una zona protetta, in un’enclave che diventerà una morsa più stretta dove i serbi sferzeranno le ultime fatali atrocità. Sì, perché i caschi blu si erano ben guardati dal togliere le armi anche agli assedianti serbi, di gran lunga più muniti di armi e follia. Era bastata l’intimidazione di Ratko’s Mladić.
Lo scorso Aprile decido di fare un viaggio dedicato alla memoria, entrando in punta di piedi nell’attuale Bosnia Herzegovina , partendo da Mostar direzione nord. Ogni paesaggio trasuda memoria di guerra: muri squarciati da mortai, paesaggi e strade che sotterrano fosse comuni, segnali mine antiuomo. E poi c’è il silenzio dei morti, che è assordante. La memoria collettiva è viva, d’obbligo, e si interseca con i racconti e ricordi personali che ognuno ha: storie e narrazioni di vittime e carnefici, bosgnacchi e serbi, mussulmani e ortodossi.
E come quei giovani che non hanno vissuto quella guerra in modo diretto, mi trovo all’incrocio tra una trasmissione transgenerazionale/intergenerazionale/multigenerazionale di vissuti, più specificamente di traumi, con connotazioni etniche, religiose e politiche.
Facilmente la memoria collettiva di una nazione viene gestita con cura ed arte da chi detiene il potere, soprattutto quando la storia ufficiale viene riscritta dopo un cambio di regime o altri cambiamenti significativi. Ma non bisogna né possiamo trascurare il fatto che anche i singoli individui “gestiscono” le proprie memorie.
La memoria collettiva è presente e ti obbliga a non dimenticare, ma ogni narrazione dipende dalla soppressione e repressione della memoria contraria a sua volta dirompente – così come i fantasmi inaccettabili del nostro passato.
L’11 luglio a Potočari, periferia di Sebrenica, la gente è ammassata attorno alla sede dell’ONU: “difendeteci”! Ma i caschi blu non fanno niente, è fuori dal loro mandato ormai, e Mladic comincia la carneficina. Arrivano i soldati serbi a prelevare uomini. L’intera notte è scandita, da urla, spari, silenzio e così via. Occorrono più camion, per smaltire “i pacchi”. 8000 uomini prelevati, torturati, fucilati dopo essere stati ammassati in magazzini, cinema, scuole nel giro di due, tre giorni. Fosse comuni cosparse di mine antiuomo, oppure sepolte sotto strade percorribili, così da vietare il ritrovamento di corpi.
Oggi c’è chi vive accanto all’assassino di suo marito, suo figlio, suo padre, suo fratello. Gli stessi carnefici, alcuni di cui, durante l’inaugurazione del memoriale di Srebrenica, ha guidato l’autobus che trasportava i sopravvissuti alla cerimonia di commemorazione.
Eravamo complici: L’Europa, l’ONU, e la NATO, nessuno ha mosso un dito davanti ad una morte annunciata da filmati, intercettazioni, documenti. Abbiamo lasciato che il massacro di migliaia di musulmani bosniaci, di essere umani direi, si compiesse in quell’enclave che noi avevamo dichiarato zona sicura, anziché un campo di concentramento e poi luogo di sterminio.
La memoria collettiva, pubblica è un processo in continua trasformazione, dove la memoria è il risultato di un processo di scelte e di selezione, viene deciso cosa ricordare e cosa dimenticare. Quanto successo nell’ex Jugoslavia, fino al genocidio di Sebrenica, non può e non deve essere ricordato da manuali scolastici come una guerra civile a sfondo etnico -religioso. Per usare le parole di Goldstein, quella che è una chiara omissione di memoria e di analisi nei confronti del genocidio e altri massacri, ha solo l’obiettivo di “sorvolare” sulle responsabilità mancate della comunità internazionale.
La Bosnia ha segnato il fallimento dell’Europa, la grandiosa unione che continua volutamente a non ricordare e ripetere.
Il mio viaggio si è fermato a Sarajevo, alla Galleria 11/07/95, non ho dovuto né ho voluto proseguire oltre fino a Srebrenica. Era tutto chiaro e memorizzato.
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